Michele Pastrello, il regista dal talento soprendente che ti contagia come un “virus emozionale”.

Michele Pastrello, regista di origini venete, spicca per la sua straordinaria capacità di saper rendere ogni suo lavoro “ipnotico”, i suoi “microfilm” sono dei capolavori. Ha vinto premi importanti, anche a livello internazionale. Esordisce nel 2006 con

Michele Pastrello, regista di origini venete, spicca per la sua straordinaria capacità di saper rendere ogni suo lavoro “ipnotico”, i suoi “microfilm” sono dei capolavori. Ha vinto premi importanti, anche a livello internazionale. Esordisce nel nel 2006 con “Nella mia mente”, un bellissimo cortometraggio di genere horror, ma negli anni ha creato il suo cinema personale, realizzando microfilm che rapiscono lo spettatore portandolo a fare viaggi straordinari e spingendolo anche alla riflessione.
Dopo la trilogia fantasy: “Desktop”, “Awakenings” e “Sensorium Dei”, lo scorso 2 gennaio ha pubblicato “Virus”, un monologo politico e sociologico che vede la partecipazione del bravissimo attore Andrea Pergolesi.
Michele Pastrello è un regista dal talento sorprendente; e come un “virus emozionale” è impossibile non rimanerne contagiati.

D: Michele, tu sei un grande professionista, e superi sempre te stesso nel creare le tue opere audiovisive; come ha avuto inizio il tuo cammino in questo campo artistico?
R: Dieci anni fa, per l’esattezza, quando esordii col primo cortometraggio, Nella mia mente, che vinse al PesarHorrorFilmFest (anche se non era proprio un horror). Da allora per qualche anno ho realizzato cortometraggi “politici”, almeno così venivano recensiti. Avevo affrontato le tematiche dell’ambiente (in particolare del paesaggio veneto), dell’omofobia, della violenza insita (e accettata) nel mondo del lavoro. Poi però ho deciso di abbandonare il cortometraggio tradizionale ed il circuito dei Festival, a favore del web.

D: Hai scritto e diretto “Desktop”, “Awakenings” e “Sensorium Dei”, tre capolavori di microcinema. Puoi parlarci di questa fantastica “trilogia”?
R: Fantastica è il termine giusto, in quanto l’elemento fantasy è forse il fil rouge che unisce i tre lavori, oltre allo stile emozionale con totale assenza di dialoghi. In verità non era nata come trilogia, ma qualcuno mi ha fatto notare lo fosse ed io ho pensato “sì, in effetti, lo è, ha un senso”. Questi tre lavori li ho sempre visti come filosofico-esistenziali, ma alla fine quella che cerco di intercettare è l’anima umana. Cito Jung: “Solo il viandante che ha peregrinato nel suo infinito mondo interiore potrà accostarsi all’Anima, scoprendo che per anni altro non ha fatto che cercare Lei, poiché Lei è dietro e dentro ogni cosa.” Ambizioso o velleitario che sia, credo che in fondo sia stato questo il motivo interiore. Poi, certo, c’è anche una scelta stilistica. Desideravo fare qualcosa di personale, peculiare, contemporaneo. Il cortometraggio classico e tradizionale non ha quasi più pubblico, le persone preferiscono brevi lavori in cui possano riflettersi, sono più disposti a brevi viaggi spirituali; per quelli più lunghi e complessi c’è il cinema.

D: I tuoi lavori sono fortemente emozionali. Dove e come trovi le idee, l’ispirazione giusta, per dare origine a questo “universo emozionale”?
R: Questa domanda mi è stata posta sovente e tendo a rispondere un po’ sempre allo stesso modo. Come scrisse Jean Josipovici: “Si crede di inseguire la felicità; non si inseguono che le emozioni.” Posso dire che l’ispirazione viene dall’incontro di me stesso, la mia storia, il mio sguardo con il mondo della musica. Della parola “emozione” ho trovato una bella definizione online: “È il nesso fra un universo puramente interno e il mondo di tutti. È la manifestazione diretta dell’inconoscibile agitazione che è il nostro primo movente, il primo motore. È ciò che dissimulato, alterato, sofisticato, incompreso fuori di sé, genera i mostri dell’animo umano, che non conoscono compassione, complicità, partecipazione – e quindi, libertà. È il picco più potente dell’animo”.

D: Qual è il luogo, se ce n’è uno, dove le tue storie prendono vita?
R: Sicuramente la strada, in auto. Amo guidare, correre in auto ed ascoltare musica, soprattutto la sera, la notte. Non mi è strano prendere l’auto alle 23 e girovagare senza meta. A volte lo faccio per ispirazione, altre volte lo faccio perché sento del malessere e devo andarmene dalle 4 mura di casa. Quasi sempre tutte le mie storie sono state concepite in auto, col buio e con un velo di malinconia. Ma anche di felicità.

D: Come scegli gli attori, e che rapporto hai con loro sul set?
R: Essendo questi progetti autoprodotti, cerco sempre persone che siano in sintonia con me. Che i miei lavori li vedono, mi scrivono quando li hanno visti. Ho bisogno di sentire che l’attore crede in quello che faccio. Quindi di norma scelgo persone con cui mi relazionavo già o che comunque sento che quello che faccio a loro piace. Poi devo dire che ogni attore con cui ho lavorato si è speso un sacco per me, nonostante il caratteraccio che ho e il poco spazio che lascio loro. Ad ognuno di loro voglio un po’ bene per questo. In particolar modo a Stefano Negrelli, presente in ognuno dei 3 lavori; l’ho fatto camminare in una tormenta di neve, sbraitare sopra una scrivania e scavare a mani nude in un bosco.

D: Un capitolo a sé è “Virus”, un monologo politico e sociologico di 7’ contro tutto e tutti. Come mai questa sterzata?
R: Sì, Virus è una cosa a sè stante nei miei attuali lavori. Volevo mettere l’estetica ed il mio stile ai margini per stare più sul testo e sull’attore. Ho avuto la fortuna di incontrare il bravissimo Andrea Pergolesi che ha un caos interiore simile al mio (io e lui assieme siamo più smarriti del meme di John Travolta) e che quindi è riuscito a capire e tradurre il mio testo in azione recitata. Virus io lo vedo come uno tsunami interiore di un’anima in pena che non vede vie d’uscita nel mondo che lo circonda. E vede che il mondo che lo circonda è sofferente tanto quanto lui.

D: Cita i titoli di un film, un libro e una canzone che ti rappresentano, e perchè.
R: Film, in questo momento mi viene in mente: Collateral, di Michael Mann. A mio avviso uno dei più begli spaccati della condizione e solitudine umana nelle metropoli. Un libro che ho amato molto è I quasi adatti di Peter Hoeg, che ha la capacità di farti riflettere su cose che non avevi mai considerato (il senso del tempo, la cultura del giudizio). Sul brano musicale ora mi sento di dirti This is not the end di Fieldwork (al secolo Johnny McDaid): solo 5 parole, ripetute, un tappeto sonoro cinematic. Se ci si “distende” sopra si entra in un altro mondo.

D: Se tu non avessi fatto il regista, quale altra professione avresti scelto?
R: Musicista, indubbiamente.

D: Hai mai pensato di fare anche l’attore?
R: Mia madre mi diceva sempre: “te dovaressi far teatro ti” (in italiano, “dovresti recitare a teatro”). Chiaramente lei aveva una bassa considerazione del teatro, quindi trai le tue conclusioni.

Michele Pastrello – Filmmaker – Concept, production & PostProduction Video (Treviso)
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Domenica Borghese